Terza giornata
È passata un'altra notte di bagordi. Serio è un uomo privo di timore di Dio e, quel che più temo, un irresponsabile. Per la seconda volta, preparata la colonna col sole già alto, s'è issato in sella brontolando, urlando comandi a destra e a sinistra con voce roca, ma pareva svogliato. Cionondimeno, dopo aver spedito quattro garzoni in avanscoperta, s'è portato alla testa del gruppo e ha spronato il cavallo, che con un fremito s'è messo al passo. I notabili sorridono per piaggeria e fingono di non giudicarlo, ma noto che alle sue spalle lanciano occhiate di scherno; tuttavia, ancora non profferiscono parola in merito alla lentezza con cui avanziamo, sotto al sole già alto, volgendo ancora le spalle al nostro immenso mare.
Abbiamo un tiepido mese di ottobre. La dolcezza del clima, il cinguettio degli uccelli, il ronzio degli insetti accompagnano me e gli altri cavalieri mentre nuotiamo nell'aria ferma, assordati dal frinire delle cicale. Immemori delle ragioni che ci hanno condotto qui, procediamo ora giocosi, come in viaggio di piacere verso una ricca villa, ora assorti, come in cammino verso un monastero.
La pista si dinoccola tra alloro e rosmarino, ginepro e lentisco. A tratti la mano sinistra cade a picco sul mare; a tratti, invece, la via rientra lambendo la boscaglia, anticipata da radi pini e qualche quercia, e il mare viene alla destra. Il mondo intero, con le terre emerse dalle coste alte e sinuose che si protendono verso l'acqua, le isole azzurre e gli scogli, il curvo oceano, da qui lo vedo bene, è poggiato nel cavo delle mani di Dio. E noi, minuscole formiche, tra le pieghe della Sua pelle ne risaliamo il concavo palmo.
Improvvisamente, mentre ci arrampichiamo seguendo le giravolte della pista di terra battuta, la traccia si perde tra i sassi e gli spuntoni. La guida che fa la spola tra l'avanguardia e il convoglio rassicura il comandante: non s'è persa la via, ma si deve procedere con cautela, affinché i cavalli poggino bene e non si feriscano o, peggio, s'azzoppino. Dunque si va, ma si deve procedere a piedi. Serio dà ordine che i due garzoni della retroguardia, appesantita da un carretto, tornino a Conca e restino pronti a rifornire gli altri di provvigioni, se mai nei prossimi giorni fosse richiesto. Ai cavalieri chiede di smontare, ai garzoni di distribuire il carico delle vettovaglie tra le bestie. Anche io ubbidisco, metto il servo davanti a tenere il Grigio e mi dispongo a seguire.
Così, per risparmiare il fiato, si sale in silenzio tra le rocce e i cespugli. Lo strappo è breve, raggiungiamo la sommità dell'altura senza grandi difficoltà e torniamo a cavallo.
S'è ritrovato il sentiero. Procediamo su un pendio dolce, una gobba verde di prato e fiori selvatici tanto bella da aprire il cuore alla gioia. Giunto alla sommità, volto la testa al Grigio che nitrisce e saluto il Tirreno, che tanto ampio, largo e tondo non l'ho visto mai. Non ho nemmeno il tempo di fermarmi, però, che già i compagni mi chiamano. Do leggermente di tacco per spronare il cavallo e in due balzi sono con loro.
Scolliniamo insieme allegramente, canticchiando e scherzando. Ma ahimè, quanto è alterno il cammino! Ci troviamo nuovamente negli impicci, perché davanti a noi c'è un dirupo ombroso e umido, coperto da un boschetto rado di giovani noccioli. "Attenzione a non cadere, attenzione a non cadere!" Ma patatrac, un palafreniere scivola sulle foglie bagnate e quasi trascina il cavallo che regge per le briglie. Si rialza fischiando e massaggiando le natiche, ma un ceffone lo sorprende in pieno volto e quasi lo rimanda a terra per sottolineare come si deve che non è il momento di scherzare.
Quando la discesa è finita, ci infiliamo in un vallone e seguiamo il corso del ruscello che lo solca. Alzo la testa e vedo che il cielo è scomparso tra le foglie alte dei faggi. Nel breve volgere di un'ora non c'è più il mare, con la sua brezza, e si respira l'aria umida della foresta. Il silenzio è rotto solo dal fruscio degli zoccoli sulla terra di bosco. Ora tutti avanzano senza aprir bocca, come fossero incantati dagli spiriti della montagna.
Anche la mia lingua è serrata in bocca, mentre i pensieri volano. Temo la variabilità dei luoghi e che il cammino si faccia sempre più difficoltoso, che Serio non sappia guidarci, che ci porti a perdere e che restiamo a vagare per giorni, o settimane, allo sbando. Temo che il mio bel cavallo si possa azzoppare, che un altro servo scivoli e questa volta si rompa l'osso del collo, che io mi ferisca tra i rami, che si levi un corvo a mano sinistra a menar gramo, che qualche cinghiale infuriato possa caricarmi, che spunti da un fosso il demone del Faito e mi aliti in faccia. Temo il mistero nel quale siamo piombati.
Torno alla mia casa e all'armo che mio padre va preparando per i commerci: davvero non vorrei perdere tutto questo, finendo in pasto a uno spirito maligno e invidioso. E perché, poi? Per inseguire un rapinatore di pecore furbo e malevolo, che certamente approfitterà della nostra inesperienza, tenderà un tranello e ucciderà tutti. Serio cadrà per primo, infilato da una freccia mentre cerca di tirarsi in piedi per scappare, e si metterà a piangere e vomitare col capo riverso nella terra nera, tra le mosche già pronte a divorarlo. Che uomo antipatico. Che fine stupida. Ma basta con questi pensieri: sono un peccato grave, perché tradiscono la mancanza di fede nella benevolenza di Dio, cui è affidato il mio destino. Me ne pento, Padre mio, invoco la Tua infinita misericordia. Abbi pietà di questo Tuo figlio, tanto debole da non meritarla, ma che pure spera. Dagli serenità e coraggio. Amen.
Ci arrampichiamo sul declivio per tirarci fuori dalla valle. Passa un compagno accanto e, nella strettoia, mi struscia. Lo apostrofo celiando: ecco, m'è già tornato il sorriso.
Superato lo strappo, davanti a noi si apre un pianoro fiorito, visitato da api e farfalle danzanti. C'è vista ampia e libera. Di nuovo si indovina la presenza del Mare Nostro, al di là delle fronde, e questo, per me, è segno di benessere. Siamo protetti. Basta angosce. Trofomes, tornerò presto. Ti aprirò il mio cuore: quando t'ho vista danzare alla luce della Luna, insieme alle tue compagne, ho provato un turbamento profondo. Voglio prenderti in sposa, faremo un figlio maschio e poi altri maschi e femmine che giocheranno insieme e ti saranno di compagnia quando me ne andrò per mare. Forse, quando quest'avventura sarà finita, troverò il coraggio di baciarti le mani.
Ma che accade, là davanti? Il comandante discute con i pari. Ho capito: per accerchiare il bandito, la schiera sarà divisa in due. Il nobile Matteo avrà con sé altri due cavalieri e metà dei fanti, mentre a Serio resteranno gli altri più il chierico. Si procede alla conta; alcuni sono presi, altri si offrono e io, che rimanevo un po' in disparte, lontano dal gruppo, resto l'ultima scelta. Andrò con Serio.
A piè fermo salutiamo i compagni che seguiranno il sentiero per Sorrento. Come si allontanano, conduco il Grigio a brucare. Un venticello lieve mi accarezza i panni e scompiglia il ciuffo. Mentre lo scosto dalla fronte, ravviando i capelli, mi prende la stessa malinconia che provo ad ogni saluto. Dura un attimo, non c'è tempo per crogiolarsi perché Serio ci chiama a consiglio. Conducendo a piedi il Grigio mi accosto per ascoltare ciò che si dice.
Marco vorrebbe mettere campo. Il suo argomentare mi convince: i compagni hanno preso la via nota, a noi tocca quella incerta, che s'infila dritta nel folto della foresta. Dunque non c'è urgenza, perché toccherà a Matteo stanare Ellino e farcelo cadere tra le braccia. Infine, è l'ora undecima e non potremo avanzare più di tanto, perché i luoghi inospitali invitano a essere prudenti.
Tuttavia, Serio fa prevalere la ragione opposta: avanzeremo.
"Che almeno si mandino due servi in avanscoperta!" propone Marco, con prudenza.
"Mio nobile amico, a che pro? Si formi la colonna: avanzeremo finché la luce ci assiste, metteremo campo al vespero e alla compieta saremo raccolti in preghiera."
Il chierico, a quelle parole, alza la mano al cielo e tutti si segnano. Tanto basta: si riprende. Questa improvvisa sollecitudine mi sorprende, ma abbiamo un compito e un comando, bisogna tacere e ubbidire.
Procedendo al passo, seguiamo una pista che fa tanti giri. Dopo un buon tratto, mi pare di scorgere un tronco già visto, poi una roccia uguale a un'altra incontrata prima. Mi convinco che stiamo girando in tondo, allo sbando. Mi prende l'ansia e alzo gli occhi al cielo, per essere rassicurato dall'astro divino, ma quello occhieggia tra le fronde e non mi dice nulla.
Forse anche Serio sa che ci siamo persi e, per orientarsi, spera di scorgere il mare da un'altura? Oppure, è stolto. Questo pensiero mi si insinua nella mente. Deve essere certamente così, altrimenti non si potrebbe giustificare una condotta tanto assurda. Ma come, la Repubblica ci mette sulle tracce del bandito e lui per due giorni ci porta blandamente a caracollare tra una mensa e l'altra? Poi all'improvviso, proprio quando il cammino si fa impervio, gli viene fretta, come se... Come se avesse fissato un appuntamento con la Morte! Faremo la fine di Varo, sterminato con le sue milizie nella foresta. "Varo, le mie legioni!" piangeva Augusto. Ma chi piangerà noi, quando il nostro nemico ci assalirà di notte e farà strage? Certamente sono molti e si muovono sul terreno che meglio conoscono, mentre noi siamo gente di mare.
Io, almeno.
Serio no, per la verità, lui viene dal castro di Scala.
Ora che ci penso, è avvezzo alla montagna, ci è nato. A dispetto dei miei dubbi, sta a vedere che sappia bene cosa va facendo?
Che confusione.
La verità è che temo Ellino. Molti dicono di lui mezze parole, ma nessuno sa davvero chi sia quest'uomo, né da quanto tempo infesti il monte. Dal soprannome di cui si fregia, è greco di origine, ma il vero nome non lo conosce nessuno. Qualcuno dice che discenda da una famiglia di Positano caduta in disgrazia, e potrebbe ben essere, ma la faccenda è incerta. Io sospetto che sia armato da Gisulfo, il Principe di Salerno, cui potrebbe essersi venduto per paura o per vantaggio. Dietro a quel ladro di pecore potrebbe quindi nascondersi il ferro dei Longobardi, che ora sono in pace con noi, è vero, ma di questi tempi non si sa mai. Di questa cosa, però, si fa mistero; in Amalfi niente s'è detto chiaramente e Serio, per quanto richiesto, non ne ha fatto menzione.
Ma sto perdendo il filo, meglio tornare a Serio. Di lui ragionavo, voglio ancora soppesare a dovere pro et contra. Non l'ho forse giudicato con troppa leggerezza? Lo andavo accusando come se potessi far meglio di lui, ma non è così. Io non ho parte, mentre Serio è stimato, sulla sua spalla il giudice ha poggiato la mano. Non fidandomi di lui, non pecco forse di superbia? Di sicuro non potrei dire a voce alta una sola delle cose che ho pensato, perché finirei bastonato fino a piangere lacrime amare per le ossa rotte.
D'altro canto, a tratti Serio si comporta come un'anima dannata. Gozzoviglia e si ubriaca, al mattino sembra più stanco di quanto non fosse la sera prima. Di notte dorme? Dalle occhiate che ieri i compagni si lanciavano, c'è da temere che sappiano qualcosa che io non so. Forse a Conca l'hanno sorpreso mentre si congiungeva a una donna? Se fosse vero, sarebbe in peccato mortale, fuori dalla Grazia di Dio, e noi saremmo nelle mani di un peccatore, saremmo persi. Mi devo segnare. Mi devo segnare subito!
Ahimè, quanto fumo nella mia povera testa. Confondo ciò che vedo con ciò che immagino, non sono più sicuro di nulla.
Chiudo gli occhi in preghiera. Padre, manda lo Spirito su di me, perché io possa capire, dammi un segno.
Ma ecco, una luce abbagliante scaccia via ogni immondizia. Riapro gli occhi e ho il sole calante fitto negli occhi. Grazie, mio Dio, ora è tutto chiaro, basta con questi dubbi, è il diavolo che me li mette in testa. Una sola cosa va considerata: Serio è un uomo pio. Partecipa alla Messa, consuma il pane e il vino benedetti. Fosse stato servo del demonio, sarebbe avvampato davanti al simbolo della Croce, il pane lo avrebbe strozzato, il vino gli avrebbe bruciato le budella.
Quante ombre, mio Dio, ma ora basta, sono di nuovo sereno.
Il vespro
Richiamo il Grigio al passo. In men che non si dica, siamo finiti all'ombra di querce, castagni, noci e faggi tanto alti che nel sottobosco si potrebbe costruire una cattedrale senza arrivare a toccarne le cime. Il silenzio è denso come l'acqua cheta nella bonaccia e noi lo tagliamo come una galea, spinta dai legni che battono lievi e ritmati. Piove luce a gocce, ci bagna le vesti, schizza gli animali, ma si fa sempre più rada e sottile finché, mentre avanziamo come in sogno, si smorza. Gli alberi si fanno cupi, i rami si allungano e ci graffiano le spalle e i volti, le radici diventano inciampo. Ci muoviamo in una caverna, i tronchi che si alternano fitti ad altri tronchi ne sono le pareti, la volta freme per il vento che s'è alzato. Inizia a far fresco. In lontananza si alzano ululati di lupi, canti di civette, bubbolii di gufi. S'è fatto quasi buio e siamo intrappolati nella foresta.
Come aveva annunciato, Serio ci ferma.
Ora ci prepariamo alla notte. S'è stabilito che non saranno accesi fuochi,
perché il nemico non ci sorprenda, e che si alternino alla guardia un cavaliere
e un garzone per volta.
La compieta
Il chierico ci raccoglie in preghiera. Inginocchiati sul tappeto di foglie e terra nera, meditiamo avvolti dal buio.
Intorno a noi il bosco freme di vita. Gli uccelli notturni si chiamano e frullano le ali, i topi corrono e squittiscono, s'indovina il moto frenetico di volpi, faine, tassi, cinghiali, cervi e chi sa quanti altri cacciatori e quante prede. I loro rumori brevi e nascosti sono strappi alla ragnatela del silenzio che mi avvolge con fili bavosi.
Non riesco a muovere le mani giunte, non posso ruotare il capo, né distogliere lo sguardo dal chierico e dal suo mantello chiaro, che è l'unica cosa che distinguo alla luce tenue della mezza Luna. Se mi voltassi, incrocerei gli occhi dei mostri che popolano la notte. Queste creature maligne salgono come fumo sottile dalle fessure, accompagnandosi ai fantasmi dei morti che riescono qualche volta a scappare dagli Inferi, e con loro stabiliscono un sodalizio malefico. Chi le scorge è perduto, viene rapito e condotto nelle viscere della Terra, al cospetto degli Angeli neri che si ciberanno del suo corpo ancora vivo e incateneranno la sua anima al fuoco. Ma non mi avranno, non distoglierò l'attenzione.
Mi segno, mi segno ancora. Padre, proteggi questo tuo minimo servo dalle
tenebre. Non lasciare che trionfino le forze del Male. Amen.
La prima vigilia
Ci viene ordinato di riposare. Sento il
chiacchiericcio dei garzoni che celermente si dispongono l'uno accanto
all'altro e a tastoni cerco di raggiungerli, camminando a quattro zampe come un
cane, le ginocchia piegate per non inciampare, il capo chino. Quando li
raggiungo, però, la fila è formata e a me tocca una posizione discosta. Mi
dispongo alla meglio su un fianco, un braccio come cuscino e lo sguardo a
cercare Marco, che è di sentinella. Lo intravedo e mi rassicuro.
Chiudo gli occhi. Signore, proteggimi. Aspetto il sonno.
Le palpebre sono la volta su cui Dio dipinge. Su quel cavo scuro ora appaiono figure avvolte dalla luce. Sono fratelli che prima pregano il Signore Dio e poi cantano le Sue lodi; riconosco il coro della Basilica del Crocifisso. Mi lascio trasportare e il suono diventa forte e reale, ma si spezza all'improvviso, le voci si attenuano, il bagliore si smorza, il buio copre ogni cosa. Sento il sangue pulsare nelle tempie e poi più nulla, perdo conoscenza e non capisco se sono sveglio o dormo.
La spalla.
Qualcosa, qualcuno mi tocca la spalla. Ho paura, non mi volto, quello insiste: "Catello", sussurra, ma io ancora non rispondo; allora mi tira così forte, da farmi rotolare giù.
Tendo le braccia per aggrapparmi a qualcosa, un ramo, una radice, ma manca l'appiglio e cado rovinosamente, la terra s'è aperta, precipito in un buco di cui non si vede il fondo col cuore e lo stomaco che saltano in gola.
Mi metto a sedere. Mi tocco, sono tutto intero. Intanto la Luna, spirito femminile e infido come ogni donna, è tramontata. Non si vede più nulla.
"Tocca a te, pigro!" mi fa Marco.
La seconda vigilia
Monto di guardia insieme a Ottavo, un ragazzotto scuro
e tarchiato, scemo come il pane senza sale. Non parleremo di filosofia, di
certo. A capirla, la filosofia, si risolverebbero tante cose; me l'ha detto un
benedettino che conobbi anni fa, che la filosofia è la porta per incontrare
Dio. Ma non mi appassiona, a me piace l'abaco, piace contare e pesare, fare
commerci. Mi piace parlare. Nei porti di Napoli e Salerno basta il greco che conosco, ma un giorno farò un lungo viaggio e scoprirò il mondo.
Forse accadrà, sempre con l'aiuto di Dio, perché mio padre progetta da tempo di
seguire rotte lunghe attraverso il Mare Nostro, fino alle coste dell'Africa, e
mi vorrà con lui. Voglio imparare l'arabo.
Non accade nulla. Se non mi tengo sveglio seguendo il filo dei pensieri, finirò per crollare dal sonno. Con Ottavo c'è poco da parlare e poi c'è la consegna del silenzio. D'altronde, è così difficile tenere gli occhi aperti.
"Ottavo, se chino il capo, scuotimi."
"Sarà fatto."
"Ma non ce ne sarà bisogno."
"Allora non sarà fatto."
"Come sei arguto, Ottavo, non pensavo."
"Io invece penso spesso, mio signore."
Oh, come lo avevo giudicato male! Come dicevo, prima, tra me e me? Senza sale? Ma con molte spezie, senza dubbio!
"Hai la lingua troppo lunga, meglio metterla a tacere."
Devo aguzzare vista e udito, questo è il mio compito, non perdere tempo con un bifolco. Meglio però che mi segga, sarò più comodo e concentrato sui miei compiti. A tastoni trovo un posticino che mi permette di fare quello che devo, ma con le spalle e il capo appoggiati a una grande quercia.
Strappo un ramoscello tenero e lo metto in bocca. Per restare sveglio si deve masticare qualcosa, è un piccolo segreto che, da bambino, mi fu svelato dal nonno. Ora lui è morto, ma torna a volte in sogno e mi parla.
Che mistero, i sogni. Sempre carichi di significati su cui è necessario indagare, eppure tanto oscuri quanto gli oracoli dell'antica Sibilla. Di certo portano messaggi importanti e tanto peggio per chi non li coglie, ma il vero nodo è un altro, capire se vengono da Dio o dalle forze del Male. Per l'affetto che mi portava, il nonno è certamente messaggero di buone notizie, che dubbio potrei avere? Ma altre volte c'è da impazzire. Per esempio, stanotte potrei sognare un animale. Fosse un cervo, porterebbe bene, ma un pipistrello o una salamandra porterebbero male. E se fosse un falco, oppure un gufo? Il falco lo so, il gufo non ricordo. Chiederò domani al chierico.
La terza vigilia
Alla fine del turno quasi dormivo ad occhi aperti e
non desideravo altro che cedere il posto a Marco. Così messo, pensavo, mi
basterà il tempo di battere le ciglia per cadere nel sonno più profondo e
invece eccomi qua, disteso con gli occhi sbarrati a fissare questa notte da
incubo.
Diceva mia madre che la paura è un fuoco che si alimenta da solo; se uno smette di averne, si spegne e non si sente più. Diceva anche che un buon cristiano non ha mai paura. È sempre stata una donna coraggiosa e devota, sono certo che la sua anima segga accanto a quelle dei Santi, nel più alto dei Cieli, e che da lassù mi guardi ancora. Mi amava teneramente. Mi diceva sempre: "Io e tuo padre abbiamo grandi progetti su di te e da te ci aspettiamo molto. Siamo certi che non ci deluderai." Poi mi abbracciava e mi baciava sulla fronte, dopo aver scostato i capelli.
Sei morta troppo presto per sapere se avessi assecondato le sue aspettative, madre. Finora grandi cose non ne ho fatte, è vero, ma ho ancora tempo. Compirò il mio diciottesimo anno in primavera, poi partirò, con il tuo aiuto. Sono troppo timido, so che questo non ti piace, ma perdonami, abbi pazienza, diventerò il tuo giovane leone.
Ora dormo.
La quarta vigilia
Quasi non ho chiuso occhio e sono di nuovo al turno di veglia.
Questa missione è sempre più una tortura. Sono sotto la morsa di un torchio, ogni ora che passa è un giro di vite. Il corpo è squassato, la testa pesante, gli occhi gonfi. La stanchezza mi fa l'effetto del vino novello, ho il capogiro e le gambe molli, sono lievemente nauseato, vorrei solo essere lasciato in pace, giacere in un angolo come una cosa dimenticata. Dormirei per tre giorni, sono sicuro; anzi, ci sono momenti in cui nemmeno capisco bene se non dormo già.
Poco fa ho parlato con mia madre. Una conversazione pacata, mi ha raccontato cosa ha patito mentre moriva. Le ho chiesto cosa ci facesse qua, di fronte a me; mi ha spiegato che era tutto normale, stavo sognando. "Ma ora svegliati", ha subito aggiunto, "hai una consegna!" L'ho ascoltata, mi sono scosso e con un brivido lungo la schiena son tornato vigile.
Ora mi si avvicina un'altra donna.
"Altolà, chi sei?"
"Il mio nome è Lilith, che vuol dire Signora della Notte, e sono figlia della Signora dell'aria."
"Non dovresti essere qui. Questo è un campo militare, siamo armati, non veniamo mica al monte per raccogliere le fragole."
"Qual è il tuo nome?"
"Mi chiamo Catello, figlio di Luca e vengo da Amalfi. Tu da dove vieni?"
"Io abito qui. Vedi quelle mura? Oltre quella cinta, c'è la mia abitazione."
"Quali mura? Qui non c'è nulla, solo alberi... Ma eccole laggiù, come ho fatto a non notarle?"
"Vieni con me."
"Non posso, sono di guardia."
Ma lei mi prende con garbo la mano: "Vieni."
Accostandomi, le guardo bene il volto: non ha gli occhi.
Senza dire più parola, la seguo. Ci avviciniamo alle mura, fatte di pietre ben connesse e rischiarate da fiaccole fisse nei cantoni. Le squadro con meraviglia, voltando il capo a destra e a sinistra.
"Com'è possibile che nessuno dei compagni abbia notato la luce?"
"Eravate distratti. Muoviti, non perdiamo tempo" mi fa e, questa volta, mi strattona.
Il mio corpo è leggero e quasi volo via. Ma non è una brutta sensazione, posso metterla a vantaggio. Con un piccolo salto il mio passo è più lungo di quello del Grigio. Salto di nuovo e questa volta ritraggo le ginocchia al petto, lasciandomi scivolare a due palmi da terra. È così facile, l'ho sempre saputo fare. Provo ancora e ne riesce un volo lieve, che posso protrarre a piacere. Imitando Lilith, allungo le gambe unite davanti a me e lascio andare indietro il busto. I nostri corpi lunghi distesi, radenti all'erba, sono scafi che tagliano l'acqua calma di un lago. Per fermarci, puntiamo i piedi e ci rialziamo. Saltiamo ancora, ma questa volta allarghiamo le braccia e siamo rondini. Con un colpo di reni ci impenniamo verso le chiome degli alberi, imbardiamo aggiustando la coda e voltiamo a destra, battiamo le ali per riprendere quota e poi giù, come frecce scagliate da una balestra.
"Non t'eri mai accorto di poter volare?"
"L'ho sempre saputo."
"Menti, è la prima volta che ti accade. Gli uomini non volano, questa è opera del demonio. Io stessa sono un demone". Nel dire queste parole, cambia d'aspetto: ruggisce, espone denti di fiera e, tra le palpebre che prima non c'erano, mostra occhi senza pupille, bianca sclera che squarcia la pece greca di un volto infernale.
"Svegliati, malfidato" mi urla nelle orecchie, con voce roca di mostro.
Sento ogni pelo del corpo ritto sulla pelle d'oca. Tremo, ma il terrore mi sigilla le labbra e non dico parola. Sono paralizzato.
Allora lei mi scuote con forza. Il mio corpo è sbattuto e lasciato cadere, sollevato ancora e scagliato giù per un dirupo. Rotolo gemendo e poi, finalmente, mi sveglio.
È l'alba e sono rovinato: Serio s'è accorto che dormivo durante il mio turno di guardia.
"Mio giovane cavaliere, risponderai di questa condotta. E con te, ne risponderà tuo padre."
Lo ascolto rosso in volto, contrito, bagnato di piscio. Sono rovinato.